Attilio A. Terragni

Italia


Nato a Como il 31 Agosto, il giorno di Sant’Abbondio, santo patrono della città, nel segno della vergine….e da giovane ho cercato di curare le mie nevrosi con il tennis e il tennis è diventato per tanti anni il mio primo agar, (campo in sumero), il testo antico su cui mi sono veramente formato. Il campo è di polvere rossa, terra sottile, quel principio, la Terra, che i greci hanno fatto diventare il principio di tutte le cose, addirittura il principio della vita umana, della vita nell’universo... [Continua a leggere]

Atelier di Attilio A. Terragni


Informazioni su Attilio A. Terragni


Nato a Como il 31 Agosto, il giorno di Sant’Abbondio, santo patrono della città, nel segno della vergine….e da giovane ho cercato di curare le mie nevrosi con il tennis e  il tennis è diventato per tanti anni il mio primo agar, (campo in sumero), il testo antico su cui mi sono veramente formato. Il campo è di polvere rossa, terra sottile, quel principio, la Terra, che i greci hanno fatto diventare il principio di tutte le cose, addirittura il principio della vita umana, della vita nell’universo, come se egli altri pianeti avessero una terra sterile e la nostra fosse di una qualità extra superiore, capace d’inventarsi me e tutti gli altri. Nel tennis la polvere si solleva, s’attacca al corpo, fa scivolare la palla con un suono sempre uguale e sempre diverso, timbro e larghezze d’onda simili ma vibrazioni diverse, fa risuonare ritmi così vicini al battito del cuore da portare la terra e il suo suono come una musica dove fioriscono i colpi migliori: tum,tum,tum,tum….. eco di un suono della terra di tempi lontanissimi, di coltivazione di campi, di ritmi di costruzioni immense, di danze, di passi che l’hanno calpestata coese degli animali scomparsi, estinti come i loro suoni. Nell’agar tennis più lo scambio si fa lungo più questo misterioso suono scende nelle voragini del passato, anestetizza il presente, e lo sforzo dello scambio, stordisce come un’antica danza dionisiaca, diventa quell’eterna presenza che non potremo mai conoscere, gli infiniti passi e rumori della Terra, strumento ritmico unico,….nascere e perire…… tum,tum,tum,tum,tum……

Insieme al tennis l’altro mio agar è stato il disegno. Per fortuna ho incontrato alle scuole medie il maestro Zia Napoleone che ha schiacciato i miei tubetti dei colori, che i miei compagni custodivano parsimoniosi. Non avevo mai visto tanta bellezza. Un mazzo di colori incantevoli. Tutti liberi, fluidi sul tavolo e….. finalmente liberati dalla mia presa da braccino tennistico. Era come essere dentro il pensiero del tubetto. Schiacciando tubetti di colori si educa un uomo alla generosità dell’arte: libertà fisica del tubetto schiacciato che espande lo sguardo per sempre. E ancora oggi vedo il mondo attraverso un tubetto. In quello scarto…. minimo….. tra…… quest’inizio sembra avere qualcosa di eccessivo, ma non posso correggerlo perché era proprio così. Lì è successo tutto. Perché l’essere giovane è iniziare tutto daccapo. E poi è lì che si decide il confine tra le cose e con se stessi, tra quelli che lo se lo chiedono e quelli che non se lo chiedono: dove è il confine delle nuvole? dove è il confine delle persone?

Sono cresciuto nella ripetizione di questi due agar. O meglio la ripetizione è cresciuta insieme a me, e io mi sono sempre riposato appoggiato a questa ripetizione. La ripetizione è ovunque: in tutti gli esseri umani, nelle loro idee e nelle loro azioni. La ripetizione non è qualcosa che avviene qualche volta, c’è sempre, continuamente. Tutte le persone e le cose ripetono, si ripetono, si……. in continuazione. Come un grandissimo eco, come quel rumore delle automobili che sento quando cammino ai bordi di un’autostrada. 

 

Mi chiedo; chissà perché arriva un momento in cui c’è questo irrinunciabile appuntamento con la biografia nell’immensità dell’universo e dei suoi misteri. Forse è un momento inutile, ma le cose inutili mi hanno sempre attratto come una calamita attira una fabbrica di pezzi in alluminio.

C’è sempre qualcosa da notare, commentare, di cui parlare, di cui scrivere e… certo di cui disegnare, perché ….come sarebbe possibile vivere senza disegnare il mondo? 

- FORM(AT)  MILANO SPAZIO FMG 

- DE STRUCTURA MILANO GALLERIA STATUTO 13

- DELICATE SUPPORTS FOR EMPTY AIR  MILANO LABOEXPO

- COSMOGONICA COMO - SAN PIETRO IN ATRIO

- RIVERRUN MILANO GALLERIA HUB ART

 

 

TRANSITI NELLA CORRENTE di Elisabetta Longari


“RIVERRUN è la prima e l’ultima parola del Finnegars Wake di James Joyce. È una parola nuova. Tutti sanno che River è fiume e Run è correre. La parola composta diventa però un personaggio nuovo, una suggestione del tessuto sonoro, e ci introduce all’esperienza di riunire le cose e di vederne il flusso. RIVERUN ha tre volte la lettera R che fa del Ritmo dello scorrere la struttura interna della parola. L’arte non è questione di Stile o di idee, è l’esperienza del RRRitmo, la costruzione del nostro incontro scontro con nel flusso del RIVERRUN. Come una giornata di infiniti anni che riparte ogni mattino. La verità è relativa.” (A.T.)

Che questa frase di Attilio Terragni sia il viatico per entrare nel suo mondo. È la migliore, la più adatta a svolgere questo servizio, proprio come una porta. Osservando le sue opere, infatti, ciò che salta subito agli occhi è la corsa delle linee, che diventano in alcuni caso veri e propri tagli, interruzioni delle superfici. In architettura come in pittura.

Questo dato rende ancora più felice l’idea di inaugurare l’attività di un nuovo edificio firmato dallo stesso autore di cui sono esposti i dipinti nello spazio interno dedicato all’arte. La corrispondenza tra contenitore e contenuto è evidente: mentre cambia l’ambito operativo, i materiali e il modo di giocarseli – si noti ad esempio l’ascetismo cromatico della prova tridimensionale che non trova sempre riscontro sul piano bidimensionale, anzi spesso vivacemente colorato - la concezione del mondo è evidentemente la medesima.

L’architettura, come i dipinti di Attilio Terragni, stabiliscono un immediato parallelo con il Finnegans wake di Joyce proprio relativamente alla decostruzione e ricostruzione del linguaggio basato sulle infinite combinazioni e metamorfosi, come per restituire la corale ciclicità della vita. Un inno alla complessità e alla ricchezza del cosmo.

Protagonista è la linea, la riga che, come insegna l'esperienza percettiva e come ha evidenziato dal punto di vista teorico in modo puntuale lo studioso francese Michel Pastoureau,[1] rappresenta il risveglio della superficie, uno dei suoi principali elementi di scarto, cesura e attivazione. Elemento particolarmente prepotente, introduce discontinuità e al tempo stesso indica la continuità del divenire, è segnale del flusso inarrestabile, essenza e perno del movimento, vettore direzionale, transito; dunque azione, e non forma.

Proprio per queste sue caratteristiche la riga sembra il punto di partenza di uno dei “discorsi” preferiti da Attilio Terragni, architetto, pittore e fotografo, sembra rappresentare l'elemento archetipico a monte di ciascuna delle modalità linguistiche adottate, che tutte si avvalgono della linea come ponte che collega ma anche come taglio che separa, frammenta le superfici, le allontana/avvicina e le perturba, mentre spesso collabora a creare una sorta di effetto specchio, una specie di duplicazione del simile che si rivela però presto come diverso.

In piena continuità con i principi dell’astrattismo razionalista, lo spazio è relativo ed assoluto al tempo stesso, estensibile, infinito e mutevole. Anche se sembra inutile scomodare Le Corbusier e Mondriaan, occorre dire che la matrice della concezione dello spazio è quella, anche se risulta di fatto quasi ribaltata. Il principale attore del detournement è l’intervento di una componente turbativa tutta postmoderna, strettamente relativa al tempo attuale, in cui l’utopia modernista è lasciata definitivamente alle spalle, come un sogno, per entrare nel regno della consapevolezza del principio d’indeterminazione e altre storie simili che minano l’onnipotenza dell’uomo, e lo ridimensionano.

La coscienza della relatività, al di là della dichiarazione posta in esergo, è sottolineata dalla proposta espositiva fondata sul gioco di combinazioni delle tele, presentate prevalentemente

in forma di dittico e trittico, figure tradizionali della storia dell'arte che trovano qui una nuova vita soprattutto nel dinamismo delle linee. 

Torniamo alla scelta di inaugurare lo spazio contestualmente a una mostra di dipinti dell’architetto che ha firmato l’edificio; questa scelta, nello scambio dialettico tra esterno e interno, che funzionano come eco reciproca, comporta appunto un effetto di amplificazione dei valori.

E torniamo alla linea, protagonista assoluta, che è prima di tutto movimento energia velocità, come insegnano anche i Futuristi e come è ben emblematizzato dalla scultura di Balla dal titolo Pugno di Boccioni, rosso incrocio di indicazioni direzionali.

È stato fatto questo esempio per dire della potenza dinamica dei colori, che spingono anch’essi, accelerando la corsa delle linee; i colori sono portatori di diverse temporalità e inclinazioni, contribuiscono in modo sostanziale alla forza della corrente, alla creazione delle traiettorie variamente orientate, a volte perfino contraddittorie. A causa di questo trattamento delle superfici, lo spazio si spalanca in aperture mai viste.

L’insieme delle opere di Terragni esposte in questa occasione, se osservate con attenzione, concentrandosi su alcuni elementi precisi e i loro comportamenti, a volte sembra che si somiglino tutte, in altri momenti invece si potrebbe pensare che abbiano perfino autori diversi. L’immagine della complessità, del cambiamento, sta sotto gli occhi dei visitatori, abbagliati dagli effetti di solarizzazione, sorpresi dal gioco del rovescio tra positivo e negativo e altre ambiguità, catturati in particolar modo dai grandi formati delle tele e soprattutto a causa dell’allestimento ritmico molto serrato, che, attraverso la presentazione dei materiali sotto forma di una sequenza inarrestabile, restituisce ciascuno al proprio essere nel tempo.

Ogni tela deriva dalla medesima concezione, del fare e del vivere: pensando a Perec, cos’è del resto la vita se non passare da uno spazio a un altro? La “figura” dell’esistenza è molto bene sintetizzata da questa polifonica attivazione dello spazio, condotta tramite operazioni che, come si è detto, danno luogo a esiti finali anche assai diversi tra loro. Tutte le tele di Terragni comunque instaurano un dialogo con le altre, fatto di contraddizioni e fratture con alcune, ricco di assonanze privilegiate con altre, fino a sembrare membri della stessa famiglia.

Corrispondenze, simmetrie e scarti tanto delle linee quanto delle stesure cromatiche, che giocano spesso sul contrasto tra l’opacità del colore acrilico contrapposta alla lucentezza del pigmento a olio.

La trasformazione è il cuore dell’esistenza, e dunque di questo lavoro. Lasciamoci trasportare dal flusso di sciami di linee tratteggiate, che, con il loro preciso ticchettio, si organizzano come soldati di un solo esercito e si dispongono come falangi; quelle stesse linee improvvisamente danno vita a elementi simili a pentagrammi o esplodono in fuochi d’artificio, oppure a tratti si animano con movimenti quasi organici, come serpenti risvegliati dal suono del flauto o nastri e cartigli calligrafici mossi dal vento. La loro caratteristica è comunque la velocità: le linee corrono, e nessuno può fermarle, corrono a perdifiato in uno spazio immenso. A volte creano effetti ottici disorientanti, dal sapore perfino catastrofico, che fanno pensare a Piranesi e a Escher, specialmente per quella componente di “quasi” specularità tra uguali ma diversi, e per l’assetto sempre instabile dello spazio che impone slittamenti e accelerazioni, improvvise cadute e itinerari imprevisti.

Cosa vedono i nostri occhi? È difficile da dire perché tutto cambia continuamente come in un film, un film di fantascienza però. Frattali, città, galassie, elementi che si aggregano momentaneamente, addensandosi a creare un nucleo, per poi aprirsi, disperdersi, spazzati via da un vortice.

 

[1] Michel Pastoureau, La stoffa del diavolo, Il Nuovo Melangolo, Genova 2007

Utilizziamo i cookie per migliorare la tua esperienza di navigazione.